Tra gli aspetti sottovalutati, fisici, economici ed emotivi, della morte di una persona cara c’è lo sgombero. Espressione spicciativa per definire una lenta, melanconica, dolorosa selezione di ricordi espressi in forma di oggetti, fotografie, stanze, arredamenti, mobili, biancheria, vestiti, scarpe, borse, piatti, bicchieri, tovaglie, lenzuola, pensieri, ricordi, odori, sapori e quant’altro. Prendere in mano, guardare con occhi nuovi, tenere/buttare. Dettagli presi singolarmente, affreschi di vite intrecciate tutti insieme. Decine di micro decisioni, tutte piccole, insistenti scosse elettriche che ti riportano qua e là nel passato, senza criterio cronologico o affettivo, ma con il chirurgico effetto di destabilizzare i sedimenti e riportare alla luce reperti più o meno graditi e utili.
Una operazione che, se non assume aspetti predatori, richiede una presa ferma sul timone della forza di volontà. Nel nostro caso, dopo la morte di mamma, ci abbiamo messo oltre due anni a mettere mano alla faccenda. E solo perché costretti in catene dalla vendita dell’appartamento.
Certo, in questo tempo, abbiamo piluccato qualche cosa qua e là, come gocce nel mare. Quello che davvero incide l’anima e strappa il cuore è l’ultimo atto. Il momento in cui l’involucro non ti appartiene più e tutto, proprio tutto il passato va inscatolato e risposto.
I miei genitori si sono conosciuti proprio sul nostro attuale pianerottolo (la foto è di loro due). I due appartamenti, uno di fronte all’altro, hanno vissuto cent’anni intrecciati. Prima i nonni da bravi dirimpettai, poi i loro figli. Mio padre, al tempo del fidanzamento, mangiava con entrambe le famiglie, una continua doppia dose che lo aveva portato sovrappeso per l’unica volta in vita sua.
E infine noi. Terza generazione, in una casa e i tre nonni -due di qua, una di là – rimasti a dividersi l’altra. Muri e porte che nei decenni sono stati alzati e abbattuti con fluidità a seconda della più recente funzionalità familiare. Con lo stesso ritmo, gli oggetti hanno seguito un andamento ritmato dagli anni tra cantine, soffitte e appartamenti. Mettere mano a quelle stratificazioni impolverate è stato come scartavetrare tre generazioni. A un certo punto subentra come un torpore rassegnato: le cose passano sotto gli occhi senza più significato. Valgono? Non valgono? Il valore economico è il primo a saltare, perde motivazione, si resta sopraffatti e l’obiettivo diventa quello di chiudere tutto. La rassegnazione impone alzate di spalle e abbandoni avvolti in rimpianti scoraggiati.
E poi, c’è l’ultimo atto. Quando meno te lo aspetti e pensi che sia tutto finito. Casa venduta, chiavi consegnate.
Invece no. Cominciano i lavori. Le demolizioni ti entrano nelle ossa. Ogni colpo è come se stessero facendo del male a una persona cara. Sono andata a vedere la distruzione, spinta da una specie di masochismo all’ennesima potenza. Mi sono -brevemente perché a tutto c’è un limite- aggirata tra le macerie di casa e famiglia. Dopodiché, la vita insegna che in questi tunnel non si muore. Passa tutto. Sempre.
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