“Mamma, diresti che hai avuto una vita felice?” “Sì!!!” Mi ha risposto con l’entusiasmo nella voce. Era l’ultimo giorno. Non so perché le ho fatto questa domanda. Ma quello squillo deciso continua scaldarmi il cuore quando si rannicchia troppo.
Se ne è andata il 27 gennaio, il giorno della Memoria. Come se mai io la potessi dimenticare. Tipico di lei scegliere una data significativa. Proprio lei che pochi giorni prima si vantava del suo ombelico -perfetto in verità- “me lo ha fatto l’ostetrica di casa Savoia”, mi ha detto rispondendo ai miei complimenti.
Mia mamma era così. L’aristocrazia nel cromosoma le impediva di far mangiare alla sua tavola la badante, pure molto amata. Come riteneva impossibile denunciare i molti dolori che la affliggevano. Mai le ho sentito un lamento, nemmeno ai risvegli da anestesie. O negli ultimi giorni -che poi noi non lo sapevamo che erano gli ultimi- quando, a fronte delle nuove difficoltà, suggeriva senza parere: “forse dovrei andare a vivere in una casa di riposo”, nascondendo imperturbabile il sollievo alle mie proteste. Era l’ultimo giorno, in realtà.
Nelle prime settimane, ma poi ancora adesso, le folate di ricordi mi stordiscono con la loro forza. Si avvicinano di soppiatto e ti afferrano al cuore quando meno te lo aspetti. Io lo so, adesso, che quando apro le finestre e vedo le sue chiuse mi salta il battito. E mi fisso su quel cactus lungo e stretto che le piaceva tanto e che alla fine di un tira e molla con me stessa mi sono decisa a portare di qua da me. Ne fotografava i fiori, li ho trovati sul suo telefono.
Non amava la gente, mia mamma. Aveva una cura tutta sua degli altri. Non dimenticava con compleanno o altre feste minori. Teneva i fili dell’affetto con tutta la famiglia nella sua accezione di larga: figli, nipoti, cugini, i suoi due fratelli, pure se non li vedeva mai. Lei la più giovane, ha salutato prima di tutti.
La sua amica del cuore era Marina. “Ci conoscevamo da 75 anni”, è scoppiata in lacrime quando ho dovuto darle la notizia. Erano a scuola insieme. E insieme hanno attraversato feste, guerra e chissà quali altre peripezie. Negli ultimi anni, attraversata da mille acciacchi, mia madre non usciva più. Veniva lei, Marina, a trovarla.
E dalla sua poltrona del salotto, circondata da libri e merende (adorava la marmellata di arance che le facevo io, tra novembre e dicembre dovevo prepararne la scorta necessaria per tutto l’anno) guardava le nostre vite, senza criticare, né consigliare. Certo, poi, il carattere talvolta le scappava di mano. Magari con un sopracciglio. Una volta guardava insistentemente un mio maglione (di caro prezzo). “Ti piace, mamma?”. “Moderatamente”, mi ha fulminato senza parere. Erano gli ultimi giorni.
Era sempre lì. Silenziosa, ma un’ancora. La sua immancabile buonanotte via whatsapp ha scavato un buco nelle serate.
Quando eravamo piccoli, lei era l’unica mamma che lavorava. Ne era fierissima, insieme alla sua laurea. Leggeva Sant’Agostino e Kant, seduta nel giardino di campagna.
Nello studio dove andava ogni giorno, ricordano i suoi insegnamenti e le borse a secchiello (ne ho viste un paio nel suo armadio).
Le piacevano, gli abiti. Anche se le avevano insegnato a non essere vanitosa e quindi lo nascondeva. Amava il rosso. Non l’ha mai detto. Ma quanti vestiti, borse e scarpe declinate nelle tonalità ho trovato tra le sue cose. Immersa nelle sue stanze e nei suoi oggetti, ho scoperto lati segreti, mai ostentati. Era così, lei. Understatement perenne. Con le sue civetterie tutte al contrario. Aveva una pelle bellissima, mia madre. Non usava profumi per nessuna ragione. E non si truccava. Mai. Teneva assai più alla sua intelligenza che all’aspetto.
Raccontava sempre di gusto della volta in cui era davanti allo specchio prima di una serata e Mio fratello le disse: “mamma, perché ti trucchi? Tanto gli amici ti riconoscono lo stesso”. Riflessione che ti spinse a desistere per sempre, cogliendo la palla al balzo per assecondare la tua natura. Era convinta di essere brutta, e invece era bella e non l’ha mai saputo.
E forse nemmeno ha indagato troppo. Aveva papà, luce dei suoi occhi e dominus incontrastato del suo cuore. E fare la donna di casa, quello mai. Penso che i primi soldi in tasca dopo il matrimonio siano stati investiti in aiuti domestici, per lei indispensabili come l’aria. In compenso, guai a sgarrare sul galateo. Monsignor Della Casa suppongo le fosse stato propinato prima del biberon (un po’ anche a me, confesso).
Nemmeno cucinare era una passione. Qualche ricetta cult l’aveva. Ma bisognava pregarla in ginocchio per farla entrare in cucina. Dei suoi piatti da battaglia non restano ricette. Troppo impaziente per tramandare.
Mi ricordo la mozzarella fritta e le salsiccelle, piccoli involtini ripieni di pangrattato e parmigiano (vabbè, più elaborati di così). L’ultima volta ho provato a farle io, ma ho sbagliato gli equilibri. Gliene ne ho portate alcune, senza averle assaggiate, ma il suo sguardo rassegnato, diciamolo, è stato sufficiente a farmi capire. Ne ho tenuta qualcuna nel congelatore per parecchio tempo, sabbia malinconica al ricordo.
Non ci posso credere che non ci sei più. La verità è che mi mancano anche le cose che mi davano fastidio di te.
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