Lunedì, 4 maggio
Ultima settimana di questo diario. Ecco le sospirate le riaperture, le speranze di una vita quasi normale, le aspettative del buonsenso. Alla fine di questi primi sette giorni di semilibertà, capiremo quanto il bene comune prevale sulla sindrome dello scolaro furbetto.
Il primo giorno di ripresa ci ha regalato qualche traffico in più, i bar che timidamente offrono un caffè sospeso sulla porta e poco altro. Ma l’entusiasmo di ricominciare. E basta distinguo, basta polemiche sotto traccia per chiedere se si può fare questo e quello. Non siamo bambini, regoliamoci.
Martedi, 5 maggio
Torno al lavoro in motorino. Erano settimane che andavo solo a piedi, in modo da centrare il goal degli almeno diecimila passi. Oggi no, non c’è stato tempo. Questo ha segnato il vero campanello della normalità. Bene e male. Mi è dispiaciuto tralasciare la passeggiata. Ma è bello tornare ad avere la giornata impegnata. Ho pranzato prendendo il famoso ‘cibo da asporto’ in un ristorantino del centro. Poi, con un paio di colleghi, ci siamo seduti su un gradino assolato per mangiare. Abitudini sociali che si adattano alla nuova condizione.
I contagi in tutta Italia sono scesi sotto R1. Chi più, chi meno. Ottima notizia. Devastante, invece, la performance inglese, che tengo d’occhio con particolare ansietà.
Mercoledì, 6 maggio
Di prima mattina squilla il mio telefono. “Ciao, vorresti venire a colazione da me sabato in giardino. Siamo otto”. “Grazie, le distanze fisiche saranno rispettate, immagino”. “No, siamo seduti a un tavolo da otto”. “Allora no, mi spiace. Non me la sento di avere incontri ravvicinati. A tavola poi…”.
Se siamo messi così, non ne usciremo mai.
Chiacchierando con amici e colleghi riscontro una diffusa ambivalenza in questo timido uscire dalla tana. Una parte di ciascuno di noi si avventura felice nella parziale libertà, ritrova piccole abitudini, sperimenta il mondo con nuovi occhi e differenti disposizioni fisiche e mentali. Ma c’è un sottile rimpianto per il tempo sospeso e silenzioso che abbiamo vissuto. Quell’estraniarsi da routine e responsabilità, il dondolarsi attraverso le ore dilatate da cucina oziosa e gardening, il massimo dell’impegno profuso per scegliere l’abbigliamento da divano. Non è un’epoca che rivedremo, mi auguro. E come tutte le esperienze uniche lascia un filo sottile di nostalgia.
Giovedi, 7 maggio
Si parla di vacanze. Difficile, però, delinearle. Sarà possibile una settimana in Grecia? O, non oso sperare, andare a trovare Flaminia in Uk (non credo)? Dovremo restare nel Lazio? Ci potremo spingere nell’amata Maremma, dalla quale ci separano invalicabili 5 km di territorio toscano? Anche se dovessi fare una quarantena li, sarebbe comunque incorniciata da guardino fiorito, prodotti dell’orto, prelibatezze gourmet calate dalla grandissima cuoca Giuliana da dividere con gli amici di casa. Già sarebbe una grande prospettiva. Il tema c’è. Sogni e prudenza se la battono per ora.
Intanto ho assaporato l’ebbrezza di invitare a cena in tutta legalità un ‘congiunto’. Tavola apparecchiata alle due estremità, posate da portata separate, convivialitá a prova di contagio.
Venerdì, 8 maggio
L’Istituto Superiore di Sanità ha dato il via libera alle mascherine fai-da-te, purché fabbricate a certe condizioni. La protezione del viso sta diventando un elemento di primo piano nel dibattito politico-sanitario, con incursioni nel mondo della moda e un posto da protagonista nel galateo 2020.
Mascherine introvabili prima, poi disponibili. Prezzi pazzi fino all’assicurazione del commissario Arcuri di un costo calmierato a circa 50 cent. Effetto da prestigiatore: il genere è totalmente scomparso per parecchi giorni. In omaggio a un consolidato principio base di economia. In sostituzione di quelle monouso chirurgiche, tradizionalmente celesti, sono apparse mascherine della più diversa foggia: pezze da ripiegare con due tagli dove infilare le orecchie (le fessure sono piccolissime, l’orecchio va accartocciato per farlo passare), costosissime fp2 e fp3 più utili in ospedale che al supermercato; mascherine in cotone bianco, inamovibili perché con lacci da annodare; altre lavabili e riutilizzabili. E qui, si è scatenato l’estro del fashion designer. I tessuti sono diventati preziosi, stravaganti, classici, tutta la gamma dei colori, per indurre nella tentazione del tutto coordinato. Arriveremo (arriveranno) alla mascherina da sera tipo carnevale di Venezia, quella sobria da lavoro (ma se sei vestito di nero, puoi mettere la mascherina blu o marrone, mi chiedo), mascherina seducente che lascia scoperto il sorriso attraverso un rettangolo di plastica trasparente; mascherina fantasia per l’aperitivo? E, se la barriera deve cinque essere fitta, la rivertiremo di seta, broccato, cotone, garza? (Le mascherine delle foto sono di Akane-ya sartoria e oggettistica giapponese, pagina di Facebook).
Anche le buone (e le cattive) maniere si stanno sviluppando di conseguenza: molto male non indossarla al lavoro, a meno che non si stia in stanza da soli. Ma ricordarsi di tirarla su bocca e naso (mi raccomando, bocca E naso, non una o l’altro) nei corridoi o in presenza di colleghi. Obbligatoria nei negozi (quelli aperti), c’è ancora incertezza di etichetta per gli spazi aperti, le passeggiate e gli incontri con un congiunto. Metterla il più possibile sarebbe regola aurea. Ma poi, ne vediamo tanti che la tirano su come un cerchietto (la latitanza forzosa di barbieri e parrucchieri pare incoraggiare questo uso improprio) o giù a coprire il doppio mento cresciuto in quarantena. Oppure che la appendono a un solo orecchio, quasi fosse un ornamento scanzonato. Non entro nel merito, io li giudico cafoni (irresponsabili).
Nessuna delle giustificazioni libertarie mi convince. Per me, restano personalità deboli a caccia di ribellioni inutili e dannose.
Sabato, 9 maggio
Per la prima volta da almeno due mesi, sono tornata al parco. Un grandissimo piacere quella camminata da troppo tempo sospesa. Villa Ada mi è sembrata splendida. Un po’ spettinata, ma non troppo. Alle 7.30 di mattina non c’era quasi nessuno (diciamo che ero in beata solitudine) e me la sono goduta in tutta la sua bellezza disincantata. I giardinieri, dite ciò che volete, hanno fatto un ottimo lavoro. Compresa la scelta di lasciare incolto il pratone dove tradizionalmente il sabato mattina si gioca una partita di calcetto. A evitare tentazioni di assembramenti. Persino all’alba c’erano vigili di Roma capitale e pattuglie di polizia a guardia delle aree sportive e dei giochi. Con il passare delle ore, immagino che la densità della popolazione e della sorveglianza si sia infittita.
Domenica, 10 maggio
Prime timide uscite sociali, in questo week end. Sempre rigorosamente all’aperto. I terrazzi romani, in questo, sono impareggiabili. E una lunga passeggiata in centro con un paio di amici (tutti bardati di mascherine) ha ribadito una vaga parvenza di ritorno alla normalità. Il traffico pedonale al centro di Roma ha ripreso forza, sebbene la mancanza dei turisti sia evidente. Camminare tra piazza di Spagna, piazza San Pietro, Pantheon, vicoli e fontane immersi nel sole promette l’estate. Ce la meritiamo.
Il virus perde di forza, dicono quelli che se ne intendono per davvero. Ci sentiamo le spalle più leggere, nonostante qualche appesantimento tra giro vita e giù di lì. Ho fatto circa ventimila passi, oggi. Tornerò presto nei miei panni e tutto questo tempo resterà chiuso nella sua parentesi, fisica e psicologica.
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