Trentamila passi, il mio record. Almeno da quando ho il Fitbit. Uno dietro l’altro tra i monti del parco dell’Uccellina, in salite e discese segnate senza essere battute. Un cielo blu di gennaio sulla testa, nessuna concessione alla primavera. Generosità d’inverno, piuttosto. Quando gli occhi attraversano l’aria fina, l’orizzonte ti ricorda che nuove prospettive sono sempre possibili e la stessa solfa si può vestire diversamente. Se guardi avanti tutti gli azzurri del Mediterraneo si mescolano su Giannutri, Montecristo, perfino l’Elba e, forse, la Corsica. Ma la strada per arrivarci passa per il verde del bosco e le pietre del monastero di San Rabano. In mezzo, le tracce arruffate dei cinghiali e dei loro eccessi, un rapido frullare -forse ali, forse elfi- le unghiate profonde delle tempeste, rami spezzati, colossi abbattuti. Il divenire in compendio.
Non è sacro, però, questo bosco, non si ha l’impressione di disturbare. È proprio Maremma selvatica. Ti osserva e fa spallucce. Tu passi, io resto.
É il bello del camminare. Ogni passeggiata ha il suo carattere. Chiede il suo passo.
Il monte Gennaro, per esempio. Tutt’altra storia. Aspro di sassi grigi, che addenti in salita come in discesa, faggi e querce spogli, bestiame brado e prati larghi e lunghi senza freni.
Insomma, quello che voglio dire è che camminare non è soltanto andare da qui a lì. Implica riflessioni (potendo) e, inevitabilmente, paesaggi e compagnia influenzano l’assetto generale.
La sintonia nell’avventura resta elemento indispensabile affinché si verifichi cotta a puntino. Il silenzio e le pause giocano il loro ruolo, nel mix tra parlare e pensare. L’approccio a un percorso accidentato la dice più lunga su un carattere di mille cene o di bicchieri di confidenze.
In questi casi, il corpo si allinea con la natura, il passo scherza con gli inciampi e la testa è libera di comportarsi come vuole, spazzare gli angoli bui oppure rifilarci pensieri. Oppure, ancora, liberare progetti e sogni a perdita d’occhio.
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