Alla seconda esperienza di volontariato per l’ambiente, posso dire di avere acquistato dimestichezza con ritmi e riti di questo modo di impiegare il tempo. C’è una certa atmosfera che si crea negli equilibri tra giovani e meno giovani, persone che arrivano da tutto il mondo per trascorrere qualche settimana o qualche mese dedicandosi a un progetto di conservazione della natura, flora o fauna che sia. C’è uno spirito simile, che aiuta a comunicare. Nessuna rivalità, nessun desiderio di comandare. Mai. Quasi tutti parlano un ottimo inglese e hanno un uso disinvolto del mondo anche se si aggirano sui venti. L’approccio di solito è attento e gentile, rispetto per le regole, attenzione sono cardini. Insieme a una enorme dose di adattabilità, che permette di affrontare con varie dosi di disinvoltura le intemperie costanti della,vita del volontario.
Chiacchieroni e fanfaroni non vanno per la maggiore. Momenti anche lunghi di silenzio, non imbarazzato, piuttosto riflessivo sono spazi naturali. Ciascuno si rifugia in se stesso e male non sta. Naturalmente gli smartphone contribuiscono parecchio all’isolamento individuale, ma spesso poi scatta la condivisione delle esperienze e il gioco delle foto reciproche.
Qualcuno va, qualcuno viene, in un eterno ricambio con le dritte e le esperienze travasate. C’è sempre il veterano che sa.
Il lavoro è spesso manuale e parecchio pesante. Per esempio, qui alle Galapagos, quando si lavora con le tartarughe ci si impregna di fango fino alle ossa. I vestiti risultano fortemente danneggiati e gli stivali di gomma sono così zavorrati di fango che si riesce a stento ad alzare i piedi. Per dominare il naturale abbrutimento, normale che tornare alla Riserva significhi più che altro doccia, cambio, cibo. Sarà per questo che si mangia allo stesso orario, ma non necessariamente insieme.
Ecco, il cibo. Altro tema interessante. Di solito la cucina non raggiunge vette gourmet. Piuttosto talvolta si sconfina nel surreale come banane fritte con una specie di parmigiano grattugiato sopra oppure il famoso cannellone ripieno di tonno e poi passato nell’uovo e fritto di Barra Honda che resta uno dei caposaldi del genere cucina creativa horror, mai sconfitto. In questi casi, immancabilmente, gli occhi dei volontari si staccano dagli schermi per cercarsi, furtivi e increduli.
Perché, diciamocelo, a tutto c’è un limite. Di solito, pero, non si arriva a tanto. Lo sforzo di variare c’è, con risultati tra le luci e le ombre. la cucina pseudo italiana ha una certa -inspiegabile- popolarità tra cuochi e volontari. Va da sè che di italiano non ha proprio nulla, tipo carbonara senza uovo o spaghetti con burro e maionese. Ogni volta te la presentano come prelibatezza “della tua terra” e ti tocca sorridere a denti stretti e talvolta mangiare anche. Ingrassare, non si ingrassa.
Altrettanto classici sono i corpo a corpo dei volontari con gli animali indigeni. C’è chi è terrorizzato dalle iguane, che in realtà sono gatti in diversa sembianza. Chi detesta i pipistrelli (di casa in Costa Rica), le vespe o i ragni (endemici ovunque e sicuramente in testa alla classifica dei più odiati). Prima o poi, si può stare certi che scatta l’urlo e si comincia con la caccia grossa collettiva al nemico minimo.
C’è poi il lavoro noioso. Ripulire un campo dalle erbacce può distruggere la schiena, ma soprattutto il morale. E anche disinfestare le strade della comunità dalla spazzatura è una di quelle attività che non ti fanno fare salti di gioia. Faticose e di nessuna soddisfazione. Queste sono le occasioni nelle quali il volontario lavativo, che esiste eccome, si laurea. Gesti da bradipo, improvviso attacco di loquacità che impedisce a braccia e gambe di muoversi contemporaneamente alla lingua, raccolta scarsa oppure incontenibile desiderio di condividere le esperienze. Che, tradotto, vuol dire, mi accollo a qualcuno e il suo lavoro lo spartiamo a metà. Presto, però, scattano le contromisure e il meccanismo viene disattivato, di solito con garbata fermezza.
Della vita quotidiana del volontario sono anche denominatore comune gli spostamenti in pulmino -o in taxi-. Difficile sentire conversazioni, durante questi tragitti spesso a orari improbabili (qui si comincia alle 5 di mattina, per dire, e sfido a intavolare conversazioni in qualsiasi lingua), con il driver che spara musica a palla e fa virtuosismi con il volante, sovente ricoperto di una igienica pelliccetta sintetica in pendant con quella del cruscotto. Gli occhi sono rivolti al paesaggio, la mente al fango (o equivalente) in programma.
C’è comunque una solidarietà generale che scatta ogni volta che qualcuno ha bisogno di qualcosa. I cerotti per le vesciche, l’artista indico per gli attacchi di formiche rosse o parenti stretti. Io, per esempio, dopo aver disboscato con il machete, una intera area mi sono trovata a rotolarmi nel letto per una notte intera ostaggio di un prurito mai provato prima.
I week end, invece, cementano più che la vita quotidiana. Partire insieme crea inevitabilmente racconti e aperture. E le serate nelle quali si mangia bene e si beve un po’, diventano allegre. Le differenze di età non contano e mi sono trovata a farmi belle risate con diciassettenni come con quarantenni. Una bella esperienza di mescolanza.
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