C’è grande ilarità per la mia smania di arrivare sempre con scandaloso anticipo in aeroporto. E per lungo tempo mi sono sentita una specie di provincialotta incapace di adattarsi alla disinvoltura del viaggiatore incallito.
Ora, a distanza parecchi anni dalle mie prime volte e con migliaia di chilometri sulle valigie e sui bagagli a mano (ben più frequenti), posso dire che la mia è una scelta dell’essere e sono felice di sostenerla e sostenerla.
Arrivare presto consente una ineguagliabile bolla senza tempo. Non tanto nelle stazioni, ovviamente, ma gli aeroporti in questo sono speciali, ti trasportano senza sforzo già in un altrove quasi neutro, un mondo a parte in cui non valgono i soliti linguaggi. È come se le vite di tutti i viaggiatori perdessero gli incastri precedenti, ancorandosi temporaneamente al largo della normalità. Guardare i tavolini di bar e ristoranti, le facce delle persone, i nuclei familiari e i solitari con libro. Osservi chi mangia cosa, chi beve e chi compra, chi girella e chi abbassa lo sguardo sullo schermo dello smartphone impermeabile al fervore circostante. Vite sfiorate come in metropolitana o sull’autobus (queste è una vera licenza poetica, ma che ne so io di autobus e metropolitane?).
Negli aeroporti abbiamo tutti già passato la barriera dei distacchi, le lacrime le abbiamo versate nei drop and go, siamo in zona franca, nessuno ci vede. I muscoli possono rilassarsi nell’anonimato. Se ne vedono tantissimi di viaggiatori solitari con un bicchiere ad un orario -diciamo- ‘anticonformista’.
E poi ci sono le coppie e le famiglie. Lasciate le convenzioni sociali, o voi, che entrate nella zona franca. Il viaggio smorza o acuisce, dipende in quale brodo di coltura è immersa l’anima. Comportamenti e toni ci si specchiano fedeli. Gli abbigliamenti perdono i freni inibitori.Il mio per primo:se parto per uno dei miei memorabili viaggi usa-e-getta-il-tuo-bagaglio, mi bardo dei fondi cassetto, con estremo sollievo degli armadi e raccapriccio dei miei eventuali accompagnatori, a com8nciare da mia figlia che detta condizioni estetiche dittatoriali.
Ecco, viaggiare in sé richiede uno stile di vita. C’è un ragionamento, più o meno consapevole, nella scelta dell’abbigliamento. Mi metto quella bella tuta leopardata con strass così comoda per i chili in più? Oppure cerco il tacco alto, magari cesellato su scarpa finto sportiva? Parrucchiere e trucco oppure naturale, tanto l’aria condizionata ingrigisce e chi vuoi che mi veda? Parto per cercare o per lasciare indietro? Mi porto me stessa o è meglio di no?
Il tempo in aeroporto, penso, è una occasione per scoprire se stessi e dare un’occhiata ai piccoli film fuori contesto che offrono le vite altrui. Perché alzare lo sguardo dal proprio ombelico è sempre una buona idea, no?
P.s. Domani riparto, una avventura che durerà tre settimane per bypassare un agosto privo di iniziativa e molto scontroso. Nella speranza che settembre si riveli più fecondo.
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