È banale, provocatoriamente scontato parlare del cibo palermitano. Il cibo vivo dei mercati, quello segreto delle monache, quello sontuoso delle famiglie. Cibo di strada, cibo di casa. In questo mio soggiorno palermitano non mi sono fatta mancare niente.
Sono stata a Ballarò, una passeggiata tra la folla, le orecchie arrossate dalle urla dei venditori, che davvero con un po’ di educazione musicale potrebbero tutti cantare l’opera per quanta voce mettono nella foga di decantare i loro prodotti. Fanno a spintoni con le corde vocali. Primeggia la calata locale, impastata a provenienze di ogni genere. I turisti, gli immigrati nuovi e quelli di generazioni, che Palermo accoglie e ingloba da secoli, senza stridori. Una bella mescolanza, anche se la borsa la devi tenere stretta e i prezzi lievitano un po’ appena apri bocca e devi camminare in punta di piedi per evitare i rivoli che scorrono anarchici.
“Se non ci fossero stati forestieri, i mercati qui avrebbero chiuso da anni. Erano immiseriti, ma ora hanno ripreso di tono”, mi dice il driver che mi ha preso all’aeroporto. A ben guardare, infatti, a Ballarò ad esempio, tutto è genuinamente artefatto. La confusione non balla sarabande impossibili da contraffare, ma l’occhio ammicca al folklore, una leggere forzatura qua e là, senza strafare. I banconi di polpo bollito sollecitano attenzione e non ho dubbi che siano lì da decenni, ma la mano del cuoco indugia un attimo di troppo per avere la certezza dello scatto
I cesti delle spezie sono decisamente meno affettati che in Toscana, le scritte sono a mano, ma in alcuni casi un poco somigliano a quelle preconfezionate che a Roma si vendono agli sprovveduti, qualunque passaporto abbiano. A Ballarò però va il merito di avere personalità molteplici, la globalizzazione delle mercanzie non esiste. Ho trovato i fiori di fichi d’India essiccati per farne infusi. Costano cento euro l’etto. “Ma ha presente quanti fiori vanno raccolti per fare cento grammi? Lo facciamo noi personalmente a mano”, spiega il venditore, fiero. Un po’ furbo, un po’ incarnazione di nicchia antica e consapevole che va preservata.
Tutt’altro stile, una raffinatezza d’altri secoli la Dolceria di Santa Caterina. L’arte pasticciera delle monache la sento decantare da quando ero piccola. Arrivavano certe scatole di metallo, piene di colori e profumi delicati. Oppure la frase, “questi pasticcini, questi biscotti escono dal convento”. Riti che scandivano le stagioni. Passare nel chiostro per conquistare la pasticceria monacale mi ha proiettato in questo mondo ovattato, maniere di zucchero, mandorle e pistacchi, confezioni come riti per vestire un bebè. Solo Palermo.
Non posso chiudere una chiacchiera dedicata al cibo senza menzionare la frutta Martorana. Adoro. Da sempre. Dalla mia prima, una lumaca che mio nonno mi mise sotto il naso, invitandomi a toccare le antenne per provare se si ritraessero. Ricordo ancora lo stupore. E beh, io che non mangio praticamente dolci, non resisto di fronte a questi concentrati di zucchero, allegria e nostalgia. Ogni vetrina di pasticcere, in questo periodo, a Palermo ne è ricolma. Gioia di occhi, sfida di fantasia per forme e sfumature di colori.
Come riunirsi con la famiglia intorno al tavolo da pranzo. La convivialità sollecitata dai piatti di casa. Ne abbiamo mangiato sempre loro in Sicilia, noi -meno frequentemente- a Roma. Lo sformato di riso, rigorosamente in bianco, vestito di prosciutto, impreziosito dai funghi. La pasta con le zucchine, gli anelletti, le lasagne sottilissime di Matilde, il pregiato gelo di mellone di Maria Teresa, nelle due versioni, cioccolato e pistacchi.. Memorie di zie, -anzi ziette- ricette tramandate (le abbiamo con dosi astruse delle quali solo recentemente ho capito l’origine nata dalla traduzione dalle misure inglesi a quelle italiane. Anzi siciliane. Qui, l’attenzione al presente ha giocato un pessimo scherzo alla cronista sempre vigile (quasi…) e mi sono dimenticata di fotografare evento e manicaretti. Troppo impegnata ad assaporare vita e memorie.
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