Aeroporto di Lomè, golfo di Guinea, Togo, Africa. Si fa presto a dire che l’Africa è un continente e qui l’ebola è lontana come a Roma. Loro, i togolesi, comunque ci stanno attenti e non transigono. Già sul l’aereo distribuiscono un modulo, oltre alla normale carta di sbarco, per i dati sanitari. Vogliono un recapito telefonico in loco e ci tengono a sapere in quale posto eri seduto a bordo. Così just in case…
E poi, ti chiedono come stai a febbre, vomito, nausea ecc ecc. Certo, la parola ebola non compare ma è come fosse scritta a caratteri cubitali.
Non basta. All’arrivo, ancora prima della dogana c’è una specie di sbarramento sanitario. Un paio di persone in camice bianco che ti misurano velocemente la febbre e controllano il foglietto sanitario. Non si sfugge.
Superato lo step, si passa al reparto visto. La fila di chi lo deve richiedere è molto più corta di quella di chi ce l’ha già. Ma non più rapida. Va un po’ stop and go. Arrivi a un tizio che ti guarda la documentazione, febbre gialla in testa, poi ti chiede di riempire un modulo. Torni indietro per farlo e quando ti ripresenti lui si è dimenticato di te e ti rifà le stesse domande. Ma hai il Modulo -in questo caso la maiuscola è appropriata- e superi l’impasse. Gabbiotto della dogana. Prendono i tuoi soldi, 20 euro per sette giorni di visto, non sono esosi, e prendono anche il passaporto. Quindi, tecnicamente si entra nel paese senza passaporto.
Quando ne hanno raccolti un po’, un tizio dell’immigrazione li porta in un ufficio dove, evidentemente, appongono i necessari timbri. Quando il mucchietto è pronto, esce uno che chiama ad alta voce storpiando tutti i nomi. Et voilà, hai il tuo permesso di entrare.
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